“Ho iniziato a fotografare 25 anni fa con delle camere Polaroid, con lo scopo di trovare una sintesi tra affidabilità grafica e sperimentazione pittorica, senza dare troppo peso ai soggetti, perché allora non pensavo di dedicarmi alla fotografia come mezzo espressivo, essendo principalmente interessato ad altre arti visive.
Quindi stressavo il processo della chimica, ovvero le reazioni delle emulsioni delle pellicole istantanee (allora estremamente stabili) in base alle condizioni di esposizione, per ottenere dei frame equiparabili a pezzi unici, che avrei poi mixato all’interno di altre opere di tipo pittorico, come sfondi o base del disegno.
I controlli di quelle fotocamere erano estremamente semplici: messa a fuoco in alcuni modelli, durata e valore dell’esposizione.
Questa percezione della limitatezza, un vantaggio tecnologico per la logica readymade di Polaroid, mi ha però incuriosito verso tutto il complesso delle tecnologie coinvolte nell’azione fotografica, dai vari strumenti di ripresa all’ottica, i processi meccanici e digitali, ed ancora i materiali sensibili necessari ad impressionare le immagini, dalla scelta della pellicola, i tipi di sensore, la chimica di sviluppo e quindi quella degli innumerevoli processi di stampa sui vari tipi di carta e supporti.
Così compresi di quanto la relazione tra tecnologia e soggetto fosse intima, ovvero di come tutti gli strumenti fossero stati progettati per delle specificità di riproduzione di ogni possibile situazione e contenuto, creando un linguaggio formale che fosse intuitivamente adeguato alla naturale esperienza visiva umana, alla base successivamente dello sviluppo della dinamica cinematografica.
Quindi dai suoi arbori, lo scopo della fotografia aveva ed ha la pretesa di raccontare la realtà, la riproduzione del vero.
Su questa onda iniziai a studiare le tecniche di ripresa, poi gli autori attraverso le loro opere, la critica e la storia della fotografia. Nel mentre divenni fotografo, intrapresi successivamente varie attività all’interno dell’industria fotografica e più recentemente in ambito cinematografico, senza mai smettere di scattare: dall’era analogica a quella del digital imaging, per comprendere che non solo la fotografia non ha mai centrato lo scopo che i suoi antichi inventori si erano preposti, ma anche che tutti i risultati ottenuti e le immagini sin qui prodotte abbiano esclusivamente a che fare con il mistero, l’ambiguo e il non detto.
L’immagine è una campionatura della realtà e come tale sottrae per poi aggiungere molto di più di un angolo di visione. Il principio di negazione quindi, dal mio punto di vista, è la volontà espressiva della fotografia, che altro non è che una pura riscrittura verosimile e mai della realtà, ma che a differenza delle altre forme di rappresentazione pittorica o plastica, si serve totalmente del visibile senza essere in grado di inventare alcuna nuova forma.
In questo spirito le mie immagini sono quindi iperprodotte in ogni fase, prima, durante e dopo lo scatto.
In questo mi sento perfettamente aderente all’intenzione della fotografia.
La quale inoltre rappresenta appieno il nostro contemporaneo e il suo destino attraverso i media che ne distribuiscono le immagini, oltre alle idee che abbiamo di verità, di tempo ed ancora circa il desiderio e la natura, tutti argomenti che cerco di trattare nella mia produzione di immagini. “
Guido Amato